Vi dico la mia sulla presa in giro del contact tracing
Supponiamo il worst case scenario di questa vicenda: una persona viene tamponata (clinicamente) il giorno dopo e tre giorni dopo risulta positiva all’infame virus. Scatta l’operazione “contact tracing”.
Vi dico la mia sulla presa in giro del contact tracing
Un esempio forse banale, forse esagerato, forse esasperato.
Arrivi in una struttura che dovrebbe essere il centro nevralgico dell’infrastruttura tecnologica nazionale. La caldera del vulcano connettività italiano. Letteralmente, in via Caldera. Arrivi alla reception del datacenter di turno che, come altri, si proclama essere il “leader di settore nazionale per innovazione e servizi”.
Puoi entrare solo dopo aver compilato un modulo in Microsoft Word (con tutto il rispetto per il mio text editor preferito e abusato) in cui ci sono 4 campi dinamici e il resto è una specie di cozzaglia che rappresenta l’antitesi della formattazione. Quindi la prima sfida è compilarlo lasciando una formattazione decente e senza cambiare le clausole contrattuali (perché si sa, il documento è modificabile). Ovviamente ignori completamente di mettere la firma a fondo pagina perché nel 2020 pensare di dover stampare un modulo in word, firmarlo, scansionarlo e rimandarlo via e-mail è un oltraggio a cui non puoi sottostare.
Mandi il modulo e ti rispondono: ok richiesta accettata.
Quindi arrivi alla famigerata reception dove devi dire allo sventurato di turno (che – giustamente – nella vita ha scelto una carriera diversa) che deve combattere l’idra a sette teste chiamata “casella di posta in arrivo” per cercare la richiesta approvata dai precedenti signori del NOC. La trova, dopo che gli hai dato l’indicazione dell’ora a cui è stata mandata pregando il dio dei server Stratum 1 NTP affinché l’ora sia uguale, ed egli la trova. Ingresso approvato.
Quindi nell’ordine, nel pieno e totale rispetto delle indicazioni anti COVID devi:
- compilare il modulo di accesso nel quale ti assumi delle responsabilità di qualche genere su cui puoi scrivere letteralmente qualsiasi nome/azienda/ruolo su cui non è riportata nemmeno per errore la normativa privacy
- firmi un modulo di ingresso con il tuo nome e cognome, azienda e firma autografa
- ti sparano la febbre sulla fronte che riporta, nel mio caso, un bel 35.7 gradi – tutto a posto
Naturalmente, entrambi su carta bianca da 80gmq.
Il foglio per la normativa COVID, preso da una bella risma alta due dita, finisce su un’altra risma di moduli firmati da altri colleghi che hanno seguito il mio stesso iter.
Non so nemmeno da che parte iniziare il mio rant perché ce ne sarebbe da dire di ogni.
Sorvolo sulla parte del modulo word perché mi rifiuto di commentare e non sarebbe coerente con l’oggetto del mio rant.
Ora supponiamo il worst case scenario di questa vicenda: una persona viene tamponata (clinicamente) il giorno dopo e tre giorni dopo risulta positiva all’infame virus.
Scatta l’operazione “contact tracing”.
La persona in questione dice “sono stato in data centre il giorno “x” per fare un intervento”.
C’erano delle altre persone?
Una piccola digressione su come sia fatto un data center: è un luogo nefasto pieno di rumorosi sistemi elettrici che urlano a tutto spiano, chiusi all’interno di “gabbie” e “armadi” a cui è possibile accedere – solitamente – usando un badge, una chiave, o una combinazione. La condizione particolare di queste stanze è che sono condizionate da grossi condizionatori che fanno circolare continuamente l’aria prelevandola dall’alto e sparandola sotto il pavimento in un sistema di ricircolo dell’aria a circuito chiuso. Non sono esattamente sistemi con filtri ospedalieri, e ammetto che mi piacerebbe contattare qualche centro di ricerca per valutare quanto possa propagarsi un virus in un ambiente simile. Resta il fatto che, oggettivamente, l’organismo è oggetto di grossi shock termici dovuti al passaggio tra corridoi principalmente “freddi” (in cui l’aria viene sparata fuori dal pavimento) e corridoi “caldi” in cui sfiatano gli alimentatori delle bestie elettriche di cui sopra.
Quindi torniamo al caso in cui una persona avesse contratto l’infame virus (augurandoci che non capiti mai ovviamente).
L’ordine logico nella mia testa (ma io sbaglio, me lo dicono spesso) è questo:
- faccio l’estrazione degli ingressi della persona in DC dal foglio ingressi
- faccio un’estrazione di tutte le persone entrate in momenti adiacenti
- recupero la documentazione (firmata) dalle persone indviduate
Facile no?
Ripercorriamo l’iter sulla base della modalità di gestione:
- prendo i fogli di carta di quel giorno districandomi nella calligrafia di chi era presente alla reception cercando A MANO gli orari di ingresso e uscita
- successivamente faccio il lavoro opposto, cercando tutti i nominativi delle persone che sono entrate e uscite, diciamo, 12 ore prima e 12 ore dopo la persona di cui al punto precedente
- quindi mi fiondo contro la posta elettronica a cercare i moduli di approvazione dei singoli individui per cercare i loro contatti
- recuperi i fogli di carta delle persone che hanno firmato il modulo COVID
Ecco, questo nel 2020 è il peggior scenario possibile che io mi possa immaginare sulla base di una situazione di fatto.
Ed è anche la ragione per cui, dopo 25 anni di “impegno” nel cercare di fare qualcosa di decente, invece abbiamo delle soluzioni che sono tra la presa in giro e l’imbarazzante. E poi parliamo di intelligenza artificiale, privacy, contact tracing e di contromisure per la riduzione del rischio.
Nel 2020 usiamo ancora fogli di carta e moduli di word come sistema di tracciamento delle richieste.
Parliamone.
Articolo CC BY-NC-SA https://rgts.ch/IPCfoyPUG19
30/07/2020 00:00:00